Presto nelle etichette dei formaggi a latte crudo potrebbe essere indicato che sono sconsigliati ai bambini. Collaborazione tra Consorzio e Università di Piacenza per le sperimentazioni

Latte “termizzato”o forme trattate ad altissime pressioni. Novità in vista nel disciplinare per una Fontina più sicura

Data pubblicazione 22 Gennaio 2025
Da sinistra il presidente del Consorzio Produttori e Tutela della Dop Fontina Andrea Barmaz e il direttore Fulvio Blanchet
Da sinistra il presidente del Consorzio Produttori e Tutela della Dop Fontina Andrea Barmaz e il direttore Fulvio Blanchet
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AOSTA (qdn) Sottoporre le forme di Fontina Dop a un trattamento ad altissima pressione oppure “termizzare” il latte a una temperatura di 60 gradi per pochi secondi prima di fare il formaggio: la possibilità di avvalersi di queste tecniche potrebbe essere inserita a breve nel disciplinare di produzione della Fontina Dop.

Obiettivo: ridurre al minimo la contaminazione di STEC Escherichia coli shigatossigeni, un gruppo di batteri pericolosi in particolare per i bambini più piccoli che, in rari casi, possono essere presenti nel latte crudo e nei formaggi a latte crudo. Come, appunto, la Fontina.

Il “caso” latte crudo
Si chiaro: fino ad oggi in Valle d’Aosta non sono mai stati rilevati episodi di sindrome emolitico-uremica causati dalla presenza di STEC nella Fontina. Però negli ultimi mesi la problematica delle possibili conseguenze delle contaminazioni del latte crudo e dei suoi derivati è tristemente salita all'ribalta delle cronache dopo la morte, la scorsa estate, del piccolo Elia Dalmonte, di 3 anni, spirato dopo un’agonia di 2 mesi: il decesso è stato collegato al consumo di un formaggio a latte crudo acquistato in un’azienda casearia di Livigno, nella valle di Sondrio, e contaminato con STEC.

Un servizio del programma televisivo “Le Iene”, a settembre, ha fatto conoscere al grande pubblico la sua storia, così come quella di Mattia, un altro bimbo in stato vegetativo da anni per lo stesso motivo. Altri casi, molti dei quali fortunatamente con conseguenze ben più lievi, si sono verificati più recentemente: è di domenica scorsa, 12 gennaio, la notizia di un bambino di 9 anni finito in ospedale in Trentino con un’infezione intestinale di origine alimentare dopo aver consumato il formaggio Puzzone di Moena.

I formaggi a latte crudo
La diffusione dei formaggi a latte crudo è estremamente varia. Nel mondo anglosassone sono pressoché inesistenti. Nel bacino del mediterraneo, invece, sono diffusissimi. La Francia e l’Italia ne sono la culla, ma se ne trovano molti anche in Spagna, Portogallo, Grecia, Egitto, solo per fare qualche esempio. Rispetto ai formaggi prodotti con latte pastorizzato (cioè portato alla temperatura di almeno 71,7 gradi per 15 secondi), quelli a latte crudo caratterizzano generalmente le produzioni più tradizionali e artigianali. E possono vantare un profilo aromatico più ricco rispetto ai formaggi a latte pastorizzato, solitamente più “piatti”. La mancanza di un trattamento termico del latte fa sì che esso abbia anche una flora di microrganismi molto più abbondante. Con tanti batteri buoni. E qualcuno, a volte, cattivo.

Obbligo dell’indicazione del rischio in etichetta

Da qui l’intenzione di “avvisare” i consumatori attraverso un’avvertenza in etichetta. Lo ha già fatto la Francia, dove sulle confezioni dei prodotti in questione si può leggere: «Le lait cru peut présenter un risque important pour les jeunes enfants et particulièrement ceux de moins de 5 ans». Il ministro all’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha espresso la volontà di indicare la potenziale pericolosità in etichetta anche fino ai 10 anni. Al momento è in discussione in Senato una legge per approvare le nuove disposizioni.

Come indicato con precisione nelle campagne di sensibilizzazione dell’Istituto Superiore della Sanità, le infezioni da STEC possono venire anche da molte altre cause: la carne cruda, la frutta o la verdura non ben lavate o, banalmente, le dita sporche messe in bocca magari dopo essere stati a contatto con animali. «Per noi è di fondamentale importanza la trasparenza e crediamo che sia giusto che il consumatore abbia il maggior numero di informazioni possibili. - sottolinea il direttore del Consorzio Fontina Fulvio Blanchet - Per questo non siamo contrari alle avvertenze in etichetta. Tuttavia riteniamo che l’informazione non possa essere affidata unicamente alle etichette, che purtroppo spesso i consumatori non leggono. Bisogna favorire la cultura alimentare, anche attraverso i consigli forniti dai pediatri e dal sistema sanitario in generale. È risaputo, per esempio, che per i bambini è meglio evitare il consumo di pesce o carne crudi, perché è stata fatta informazione nel modo corretto e tali indicazioni oggi fanno parte della nostra cultura, senza specifiche avvertenze in etichetta».

La Fontina con latte pastorizzato? Sarebbe Fontal
Il Consorzio Fontina non ha certo atteso il clamore mediatico degli ultimi mesi per affrontare il problema. «Negli anni le analisi sono diventate molto più accurate e per questo gli STEC si rilevano più spesso rispetto a prima. spiega il presidente del Consorzio Andrea Barmaz - Il primo caso di richiamo della Fontina per presenza di STEC risale al 2018. Ci siamo subito precipitati all’Università di Piacenza, con cui esiste una lunga storia di collaborazione. Con il professore di microbiologia Pier Sandro Cocconcelli, un luminare nel campo, abbiamo riflettuto su come affrontare la questione. La prima ipotesi è stata quella di pastorizzare il latte ma si è subito scartata perché spalancherebbe la porta alla concorrenza industriale. Per intenderci: la Fontina con il latte pastorizzato sarebbe come il Fontal. Poi naturalmente ci sono tante peculiarità stabilite dal disciplinare, come la provenienza del latte e del fieno e la razza delle bovine, ma a livello tecnologico la differenza è quella».

La “termizzazione” e il trattamento con “alte pressioni”
«Quindi lo studio in collaborazione con l’Università prevede la ricerca di altre soluzioni al problema, seguendo 2 vie: una sulla materia prima e una sul prodotto finito. - prosegue il presidente Andrea Barmaz - La prima si chiama “termizzazione” e consiste nel portare il latte a una temperatura di circa 60-65 gradi (cioè più bassa della pastorizzazione) per pochi secondi: in base alle prime risultanze, pare che si riduca fortemente il numero di batteri coliformi mentre sopravvivono i microrganismi “buoni” come i fermenti, di cui la Fontina ha bisogno e la cui presenza è indispensabile ed è anche scritta nel disciplinare. Con la pastorizzazione, invece, si eliminano pure i batteri utili».

«La seconda opzione, sul prodotto finito, è l’avanzatissima tecnologia Hpp, che già è applicata in particolare per esportare negli Stati Uniti ad esempio insalumi o succhi di frutta: - continua Andrea Barmaz - in pratica consiste nel sottoporre le forme intere a una pressione elevatissima, di migliaia di bar. Anche in questo caso pare che il numero di Escherichia Coli venga drasticamente abbattuto mentre sono salvaguardati i batteri “buoni”. Lo studio all’Università di Piacenza è condotto su entrambe queste modalità, anche tramite i cosiddetti “challenge test” in cui si contaminano volontariamente i campioni con una determinata quantità di STEC. I primi risultati paiono estremamente soddisfacenti, bisogna però attendere i dati definitivi delle prove scientifiche e le successive relazioni conclusive. Se, come sembra, verrà confermata la validità della sperimentazione, il Consorzio potrà avviare l’iter per chiedere al Ministero l’inserimento nel disciplinare della possibilità di effettuare questi trattamenti, con probabile avvio già nel prossimo autunno.

La domanda è: questi trattamenti alterano il gusto finale della Fontina? A quanto pare no. Sono già state effettuate verifiche analitiche e degustazioni che avrebbero dimostrato che la Fontina ottenuta da latte termizzato oppure sottoposta ad alte pressioni è del tutto indistinguibile da quella che non ha subito questi processi. Naturalmente questi trattamenti sono onerosi: i macchinari per farli hanno un costo che - per quello della “pressione”, sulle cui potenzialità anche la Cooperativa Fontina si sta interessando da vicino - arriva fino a circa 3 milioni di euro.

«Parallelamente si è portato avanti un costante monitoraggio sia sul latte che sulla Fontina per trovare eventuali contaminazioni. - chiarisce Andrea Barmaz - Sono stati processati da laboratori ufficiali migliaia di campioni. Questa è una cosa che vogliamo proseguire e implementare, anche se naturalmente servono parecchi soldi, così come servono per la sperimentazione con l’Università di Piacenza, per la quale dovremmo godere di un finanziamento attraverso il Csr - Complemento di Sviluppo Rurale: d’altra parte in questi anni dal primo richiamo della Fontina c’è stata una grande presa di coscienza del problema da parte dei nostri soci ed è per iniziativa di tutto il consiglio di amministrazione che abbiamo portato avanti gli studi con l’Università di Piacenza. Si sono inoltre tenuti 8 incontri con chi lavora nella filiera per sensibilizzare sulle buone pratiche, per ridurre al minimo il rischio di contaminazione. In questo senso, è stata fondamentale la collaborazione con l’Arev, con i veterinari dell’Usl, con gli Assessorati dell’Agricoltura e della Sanità e con l’Institut Agricole Régional».

Daniel Quey